Il silenzio e la parola nelle forme scultoree di Chiazza

 
C'è una radicale mutazione prospettica nella lettura dello spazio fornita dall'opera scultorea di Vincenzo Chiazza; mutazione che, seppure innervata nella sua radice estetica sulla tradizione figurativa, subisce il fascino futuribile dell'energia e della dilatazione caotica. Il legno, si sa, è materia fibrosa, difficile da ritorcere e arrotondare; ancor di più il marmo, con le sue vene di ruvida brillantezza, o la pietra, il gesso, l'argilla, con le loro asperità; ma Chiazza, invece - ed in ciò risiede il segno della mutazione - reinventa, toto coelo, l'equilibrio basale delle sue opere in funzione di uno spazio nuovo, per lo meno rinnovato, e comunque ambivalente, pluridimensionale. L'opera scultorea di Chiazza ridisegna le coordinate dello spazio circostante, alleggerendolo dell'insicurezza tridimensionale, e facendone invece un pluriverso frutto della compresenza intersecante ed intersecabile di coni, sfere, ammiccamenti cilindrici e risostanziate nudità.
L'equilibrio della forma soggiorna così nella materia trattata; anzi, propriamente la abita, la veste di nudo, ne circoscive nettamente l'armonia. L'opera di Chiazza espropria lo spazio ordinario del Kòsmos figurativo, veicolando l'occhio del fruitore all'interno degli interstizi che la luce crea in virtù delle sinuosità formali e delle sorprendenti proprietà materiali. A dire il vero, la materia dell'opera di Chiazza, calzata all'interno del genio formale che la modella e investe, perde la sua definizione strictu senso empirica; cessa, cioè, d'essere un “questo qui”
determinato ed inconfondibile.
Voleva Platone (la cui filosofia ancor oggi dirige l'arte, pur insegnando a rifuggirla), nell'oscura genesi dei suoi miti, che Eros, figlio di Pòros e Penìa, fosse l'amante per eccellenza; egli, divino tra gli dei, in perenne bilico tra povertà e ricchezza, era il Dio del non-amore; l'icona più suggestiva di certa filosofia della ricerca; l'effige di colui che cerca sempre poiché (ricco di ciò che serve per saper cercare, ma pur sempre povero riguardo all'oggetto bramato) proietta tangibilmente l'emozione del suo viaggio interiore. Così la tèkne di Chiazza, ars magistra dell'artificio impone eidos alla mera “cosa”. Il suo gesto demiurgico, tuttavia, è - al contempo - invenzione, generazione di un'altra prospettiva… novità. Lo spazio, infatti, non è un vuoto contenitore ove collocare oggetti. Esso è ciò che l'occhio inventa per ritrovare le forme disegnate dalla luce. E se “luce” è sinonimo di “visione”, Chiazza fonda una nuova “teoria della visione”. Visione non già di oggetti, ma di forme: astrazioni, dunque, dello spirito che vedendo e-legge e ri-scopre l'armonia del transeunte inscritta nella contradditorietà dell'esistenza.
Per questo - ci piace pensare - al silenzio del cosmo d'ordine e disciplina, Chiazza interpone la parola della dynamis, forza dell'anima, che plasma, forgia e - miracolo nel più sottile stupore dell'Arte - talvolta giunge sino alle soglie della creazione. Sulla soglia impervia del facere e del factum.
Oggi più che mai l'opera di Chiazza, d'altra parte, assume il ruolo edificante nella sua lontana Sicilia. Lui, che a Torino ha ricevuto il maggior plauso per la sua opera, è ritornato in Trinacria per lasciare - come a Cianciana - l'enorme segno del monumento.
E piccoli monumenti sono queste figure, in cui la terra natia trasluce come increspature, fessure, forma cava di domande.  
Quelle, profonde, che Chiazza pone con la sua opera oggi anche a Castelvetrano Selinunte.                               

Giacomo Bonagiuso

Vincenzo Chiazza