L'autore ha scelto di presentarsi con le fluenti stilizzazioni degli ultimi anni, di intenzionalità mitica e talora archetipa. Ma essendo, ritengo, improponibili, considerando e valutando la sua risoluzione spontanea, immediata, "nativa" del problema creativo della modulazione ed evocazione della forma plastica e tridimensionale nello spazio e dall'altra parte la sua sensibile (non compiaciuta) manualità nel trattamento delle materie scultoree, la contrapposizione di tradizione contemporanea, fra mimèsi della realtà visiva e psicologica e estrazione da essa, vi è qui almeno il ritratto della moglie in terracotta colorata (d'altronde del 1988) e rappresentare il primo versante.
 
La concezione tradizionale dell'espressione, del "linguaggio" attraverso la creazione di forme visive come ragione intima di vita è del tutto valida nel caso di Chiazza; lo è tanto più di quanto, dopo l'apprendistato siciliano alla Scuola d'Arte di Sciacca e la frequentazione di artisti come Messina e Bodini, la padronanza del "mestiere" e della materia è tutta ed esclusivamente frutto in continua crescita di una personale, giustificata fedeltà ad un sogno, ad una vocazione, non slegata, ma nemmeno subordinata alle circostanza materiali e quotidiane del vivere.
 
Ciò che colpisce in effetti nelle sue opere, siano esse "figurate" fino all'illusionismo della coloritura - e mi viene in mente, nella tradizione nostra del comportamento, addirittura il linguaggio, nella sintesi estrema e ideale del corpo plastico e delle sue superfici e da una parte la loro vitalità quasi un espressione di una dinamica d'amore da parte del loro autore e dall'altra la capacità manuale di trarre dalla materia, dal suo corpo e dalle sue superfici, di volta in volta la particolare vocazione plastica.
 
Per questo mi sembra che, al di là della sua scelta culturale attuale (e ben venga la cultura a innervare e focalizzare la potenzialità naturale), una vibrazione vitale, una spontanea avvolgente interazione fra forme, spazio, luce, accomuni i suoi ritratti e suoi simboli primigenii di paternità, di lotta. La scelta di fondo di Chiazza non è tanto quella fra realtà e astrazione, propostagli dalla sua capacità di operare in una dimensione culturale attuale, quanto quella di credere ancora lungo una tradizione che corre dai valori "magici" e mitici sotto ogni latitudine fino alla Arp, a Moore, a Viani, nella vocazione della materia a farsi forma, per via di "levare" o per via di "porre"; e forma viva, trasfigurata, vibratile, in cui entra anche in gioco la qualità cromatica.
 
Mi hanno colpito, nel rapporto e dibattito processuale e direi sensuale, fra Chiazza e le sue materie, due fatti: nei gesti predisposti almeno per la fusione (comunque mirabilmente autosufficienti) e nelle terrecotte, la capillare graffiatura delle superfici, atta a captare la massima potenzialità animante della luce e l'intrinseca necessità della coloritura o della patinatura; nei legni, la funzione che assumono i noduli e persino le nascoste imperfezioni nel guidare letteralmente la mano e la sgorbia fino al limite, altrettanto necessario rispetto all'idea iniziale di forma del perfetto equilibrio fra i pieni e i vuoti e la fluenza dei piani e i segni originali della vita nel tempo del legno stesso.

Marco Rosci

Vincenzo Chiazza